“E adesso va’…”. Sono le parole
che ogni maestro dovrebbe alla fine poter dire. E che ogni discepolo dovrebbe
essere in grado di sentire e comprendere. Il coronamento della relazione.
L’ultimo fondamentale insegnamento, senza il quale tutto ciò che è stato detto
in precedenza è incompleto. Lasciare il monte.
Lasciare ciò a cui abbiamo
avuto la tentazione di attribuire il carattere di meta.
Le ascesi, le iniziazioni, i
cammini di perfezione sono percorsi trasformanti, capaci di mutare la qualità
della nostra consapevolezza e di raccogliere e direzionare le nostre energie
verso un punto che altrimenti sarebbe irraggiungibile. Ma una volta raggiunto
quel punto, è d’obbligo non considerarlo un punto d’arrivo. Al contrario,
occorre rendersi conto che da lì il percorso prosegue. Affrontare la discesa.
Ridiscendere dal monte.
Padre Serafino, quando vede che
il suo discepolo ha appreso tutti gli elementi del suo insegnamento e ha
raggiunto un alto grado di perfezione nell’arte della meditazione e della
preghiera, lo esorta a lasciare il monte e a tornare a casa.
Tutto ciò che egli poteva
imparare sulla vetta, lo ha imparato. Non andrà oltre. E dunque, se vuole
ancora, davvero, proseguire il suo cammino, deve abbracciare il movimento
contrario a quello dell’ascesa, che finora ha seguito. Volgere le spalle alla
montagna e tornare al punto di partenza, là dove il suo viaggio di ricerca è
cominciato.
Come è possibile questo? Dopo
tanto cammino, dopo tanto lavoro, dopo tanti raggiungimenti interiori, come si
può ora semplicemente “tornare indietro”? Non sarà un regredire? E tutti i
raggiungimenti ottenuti non verranno vanificati da questo percorso a ritroso?
La vetta del cammino non coincide forse con la vetta del monte? E ora che è
stata raggiunta, lo sforzo non dovrà essere quello di “rimanervi”, saldamente
ancorato, e di cercare di non ricadere in basso?
Questa la principale tentazione
del discepolo. Di ogni discepolo. E in particolare, di ogni “bravo” discepolo.
Troppo zelante, troppo perfetto, troppo desideroso di vetta. Troppo. E in
questo troppo c’è l’ostacolo.
La vetta non coincide
semplicisticamente con la cima, ma sta a valle, là dove il cammino è
cominciato, là dove si era prima che il cammino iniziasse. L’ascesa, se vuole
davvero raggiungere il suo scopo, deve essere completata dalla discesa. Il
viaggio deve avere un “ritorno”.
Non basta salire.
Così, il discepolo di Padre
Serafino, una volta tornato nella sua città, inizialmente restò ancorato agli
insegnamenti appresi sull’Athos e cercò di mantenerli nella forma in cui li
aveva imparati. Quando era agitato, meditava come una montagna; quando si
sentiva invaso dalla tristezza, respirava come l’oceano; quando il suo sguardo
scorgeva la sofferenza degli uomini, ricordava il cuore compassionevole di
Abramo… “Esteriormente era un uomo come tutti gli altri. Non cercava d’avere
l’aria di un “santo”.
E pian piano raggiunse davvero
la vetta, lì, nel trambusto e nella confusione della città.